Lo
scorso anno, mentre stavo elaborando la trama di “Welcome to Insomnia”, un
forte dubbio continuava a risuonare nella mia mente: ha senso provare a scrivere
un romanzo gotico, quasi horror, con protagonisti i fantasmi, ma che abbia
nello stesso tempo l’ambizione di proporre anche importanti temi sociali,
psicologici e ambientali? Certo, ero consapevole che questo tipo di letteratura
ha sempre un sotto testo, una metafora, un riferimento alla realtà, nascosto, ma
non troppo, tra le pieghe della fantasia. Le tematiche che avevo in mente
erano nello stesso tempo molto attuali ma comunque difficili da trattare in un romanzo di questo genere, rivolto soprattutto ai giovani. Per
diversi giorni il dubbio non mi ha abbandonato, fino a quando, quasi per caso,
ho ritrovato una frase che tempo addietro mi ero appuntato sul mio “taccuino
delle idee importanti”.
La
frase era la seguente: “Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio si
alzò, andò ad aprire e vide che non c’era nessuno.” Questo è uno dei più begli
aforismi di Martin Luther King tratto dal libro “La forza di amare” del 1963.
La prima volta che ho letto questo testo, correvano i primi anni Novanta, io
ero un giovane studente universitario e stavo facendo il percorso che mi
avrebbe portato a seguire la filosofia della non violenza, ad entrare a far
parte di movimenti ecologisti, diventare attivista del partito dei Verdi e
infine anche vegetariano. Avevo letto i discorsi sulla convivenza tra le
religioni di Gandhi, approfondito il pensiero del mite combattente Alex Langer,
conosciuto la liberazione animale di Peter Singer, ed ero rimasto affascinato dalla
filosofia di Martin Luther King sulla lotta nonviolenta per il raggiungimento
dei diritti civili degli afroamericani. Forse fu proprio la lettura di questo
libro (a questo link trovate una interessantissima recensione e una biografia
di King) a convincermi definitivamente a far domanda per diventare obiettore di
coscienza quando ancora non era così semplice convincere il ministero della
difesa che si poteva “servire la propria patria” senza imparare a sparare nella
pancia a nessuno, come dice la mia grande amica partigiana Lidia Menapace.
Sono
passati più di vent’anni da quel momento di grandi passioni e ideali giovanili e
tante cose sono cambiate. Ad esempio non sono più vegetariano, purtroppo. Poi
ci sono state disillusioni e dolorosi bagni di realtà, ma ancora oggi, nel mio
piccolo e non senza contraddizioni, cerco di portare avanti queste idee che
sono entrate a far parte del mio personale bagaglio culturale. Allora ho
pensato che la paura poteva davvero essere un grande scenario per parlare di
argomenti importanti e dibattuti. Me ne sono convinto ancora di più quando
l’estate scorsa ho sentito in televisione uno degli psicologi che sono andati a
parlare con i bambini di Amatrice dopo il terremoto. Lo psicologo diceva che
molti bambini esprimevano il loro disagio nei disegni, ma a parole facevano
fatica ad ammettere di avere paura, si vergognavano di dirlo di fronte ai loro
compagni. Lo psicologo li aiutava a capire che invece ammettere di avere paura
era il primo passo per riuscire a conviverci e rielaborarla. Ecco perché ho
deciso che la frase simbolo del mio romanzo sarebbe stata: “Ci vuole coraggio
per avere paura”.
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