“Vi voglio salutare con le parole
di Lucio Anneo Seneca, un grande filosofo latino dell’antichità, tenetele a
mente quando sarete a Insomnia: Sicuri
dunque e a testa alta, in qualsiasi luogo ci toccherà di andare, avviamoci con
passo intrepido, misuriamo ogni angolo di terra, quale esso sia: entro i
confini del mondo non vi può essere esilio di sorta. Nulla infatti che si trovi
in questo mondo è estraneo all’uomo.” Queste le parole con le quali nel mio
romanzo il professor Marcus Stranaluna si congeda dai suoi ragazzi, allontanato
dalla scuola per la sua diversità di abbigliamento, di stile di insegnamento,
di punto di vista da cui guardare le cose: “Un tipo particolare e stravagante
certo, ma, visto da vicino chi può dirsi del tutto normale?” La scelta di citare Seneca, che tornerà in mente ai
ragazzi nel momento più cruciale della storia, quello del confronto con le loro
paure, è stata devo ammettere, casualmente voluta. Questo strano ossimoro è
giustificato dal fatto che Seneca è uno dei miei filosofi preferiti: il “De vita beata” (Sulla felicità) lo
acquistai da giovane universitario poco più che ventenne nella famosa collana
dei Tascabili economici Newton: 100 pagine per mille lire, e ne sottolineai con
un pastello rosso alcuni brani che mi sarebbero tornati in mente in successivi
momenti delle mia vita. Ma la frase citata nel romanzo l’ho letta casualmente
quest’estate, durante un’istruttiva seduta in bagno, su un’agenda, quella di
Bellavite editore, che riportava la recensione del mio precedente libro “Piccola
staffetta”. Seneca si riferiva al suo esilio personale, in Corsica, al quale
era stato condannato per presunto adulterio dall’imperatore Claudio, ma calzava
a pennello anche per la situazione del mio romanzo: i ragazzi sarebbero andati
in gita nella città fantasma di Insomnia, un luogo estremo, ai confini del
mondo conosciuto, ma contemporaneamente si sarebbero immersi nelle loro più
profonde paure. Il professore, combattuto e straziato dal dubbio come il
filosofo che cita, dà loro un ultimo consiglio: siate cittadini del mondo, non
fermatevi di fronte alle difficoltà e seguite la vostra sete di conoscenza, perché
nulla è estraneo all’essere umano, anche quello che umano non è più, come i
fantasmi.
Seneca, ritratto da Rubens
Seneca mi ha sempre
affascinato perché, come dico nel titolo, è un filosofo imperfetto, un uomo
immerso nel suo tempo, un tempo difficile e contrastato, il primo secolo d.C.,
quando a Roma regnano gli imperatori della crisi: Caligola, Claudio e
soprattutto Nerone, di cui sarà precettore e in seguito consigliere con tutte
le contraddizioni e i compromessi che questo comporta. Un filosofo che in età
giovanile è vegetariano, ma poi cambia idea e alimentazione quando rischia di
essere sospettato di eresia, un moralista che rimproverava il lusso ma che possedeva cinquecento tripodi con piedi d’avorio
spiegando che lui possedeva le
ricchezze ma non ne era posseduto. Un uomo molto autocritico e consapevole
dei suoi difetti perché amava definirsi un
oceano di difetti, ma anche uno dei filosofi più amati da grandi pensatori e
credenti come Sant’Agostino e Dante. Un filosofo stoico che combatte l’epicureismo,
ma che comprende qual è il vero messaggio di Epicuro e a quale piacere si
riferisca nella sua ricerca. Dopo avere avuto una vita movimentata e
appassionata, Seneca se la toglie tagliandosi le vene con uno stiletto, dopo
essere stato accusato di congiurare proprio contro Nerone. Un filosofo imperfetto
dunque, come imperfetto è l’essere umano, sempre teso alla ricerca delle
felicità, che non trova mai perché è anche tanto fragile e contraddittorio. Vi
lascio in compagnia delle sue frasi, tratte proprio dal “De vita beata” asserendo insieme a lui che la vera saggezza
sta nella pure contemplazione e che, forse, la vera felicità consiste nel non
aver bisogno della felicità.
Ma tu mi dirai, coltivi la virtù
unicamente perché speri di ricavarne un piacere. Ebbene, tanto per cominciare,
il fatto che la virtù procuri un piacere non significa che la si cerchi per
questo: il piacere è solo un’aggiunta, non la meta del nostro sforzo.
Non pretendete dunque che io sia
uguale a i migliori, chiedetemi solo di essere migliore dei cattivi: è già un
passo avanti se riesco a togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e a
biasimare i miei errori.
Il saggio non si duole né si
disprezza se è di bassa statura, ma al tempo stesso ritiene preferibile, anche
per sé, essere alti; così se è magro o privo di un occhio non dà importanza
alla cosa e tuttavia vorrebbe un corpo robusto (…) allo stesso modo accetterà
una cattiva salute, ma non per questo dovrà negarsi il desiderio di tornare in
perfetta forma.
Felice è dunque quella vita che
si accorda con la sua propria natura (…) amante di tutto ciò che adorna la
vita, ma con distacco, disposta a servirsi dei doni della fortuna ma senza
farsene schiava.
Volete sapere come si conciliano
le massime di un filosofo con le trame di un romanzo gotico? Leggete “Welcome
to Insomnia” e non avrete le risposte, ma nuovi interrogativi per la vostra personale ricerca della
felicità.
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